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Dov'è la politica in letteratura? | Italien | bpb.de

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Dov'è la politica in letteratura? Essay

Giulia Caminito

/ 15 Minuten zu lesen

Avevo quindici anni e il mio fidanzato disegnava celtiche sul mio diario, lo facevano ridere. Io mi innervosivo, le cancellavo, ma se lui riprendeva in mano il diario per scrivere la parola DUX, io lo lasciavo fare. Lui scriveva, io cancellavo. Lui giocava con i simboli di una dittatura, io li trovavo terribili e volgari, ma non gli impedivo di scarabocchiare. Subito dopo uscivamo al cinema, andavamo a casa sua ad ascoltare musica dal mio mp3, soprattutto Lucio Battisti.
Ero abituata ai suoi gesti, alle sue parole, non gli davo più peso. Era più forte la mia voglia di stare con lui che quella di arrabbiarmi, prendere posizione.

Così ho passato molta della mia adolescenza: sapevo cosa fosse giusto per me, cosa fosse sbagliato, ma non riuscivo a dirlo ad alta voce. Subivo, con frustrazione, le dichiarazioni neofasciste dei miei amici, le scritte che si trovavano sui muri e che leggevo ogni mattina a scuola. Il Duce è la Luce, dicevano, e io le fissavo imbambolata.
In quegli anni, a parte i miei genitori, non c’era nessuno nella mia vita che parlasse di politica. Ognuno di noi era concentrato su sé stesso, inibito dal disinteresse altrui per certi temi, spaventato di risultare fuori dal coro, fastidioso. Era un mondo di uscite pomeridiane in motorino, compiti di matematica da finire alla domenica, primi messaggi sul cellulare, feste a cui farsi invitare. Nessuno mi ha mai chiesto allora di andare in una piazza insieme, a una manifestazione.

Le uniche conversazioni politiche che ascoltavo erano quando mio padre e mio nonno litigavano davanti alla televisione. Uno votava a sinistra, l’altro a destra e ogni telegiornale si risolveva con una baruffa. Io venivo invitata a uscire dalla stanza.

***

Mio padre e mia madre sono stati giovani negli anni 70’, anni in cui avevano fatto della politica il pane quotidiano. Ogni scelta, ogni decisione era presa nell’ottica di una identità politica precisa, un orizzonte di letture, discussioni, confronti che a partire dai libri, dai dibattiti e dalle riviste arrivava a diventare una pratica solida, un saper vivere.

Ricordo ancora una cena a casa di amici dei miei genitori a cui era stata invitata una coppia che non conoscevo. Mi erano sembrati adulti qualsiasi, si erano scambiati con i miei genitori alcuni aneddoti del passato, avevano chiacchierato con gusto e si erano abbracciati al momento dei saluti, che erano arrivati prima del previsto. Avevo chiesto a mio padre come mai dovessero andare via così presto e lui aveva risposto con un laconico: “Devono rientrare”. Non capii lì per lì. Solo anni dopo mi resi conto che i due avevano la semilibertà, dovevano tornare in carcere. Stavano scontando gli ultimi anni di una condanna per terrorismo e lotta armata, avevano partecipato ad alcune attività della Brigate Rosse ed erano stati arrestati.

Mia madre a volte rideva ricordando quella volta in cui lei e mio padre erano scappati a perdifiato da un poliziotto armato dopo una manifestazione, e per fortuna era arrivato un autobus e loro erano saliti al volto. Il guidatore aveva visto l’agente arrivare e aveva chiuso subito le porte, era partito e li aveva salvati.

Io non raccontavo mai ai miei amici di provincia di certe avventure politiche di famiglia, tenevo per me ogni considerazione se a tavola, invitata per un pranzo, c’era chi si entusiasmava a sentir parlare di comunisti mangia-bambini alla televisione.

C’era uno scarto, una scissione, tra la me incapace alla reazione con i miei coetanei e la me sveglia e curiosa tra le mura domestiche. Non sapevo come farle coincidere, queste due me, le lasciavo esistere insieme: la fidanzata di un ricco ragazzino neofascista impegnato a disegnarle celtiche sui quaderni e sull’astuccio, e la figlia di ex militanti di sinistra che a cena ospitavano amici brigatisti.

I romanzi che leggevo arrivavano tutti dalla biblioteca di casa, mai dalla scuola, mai dalle mie amiche. Erano molto rari i casi di contaminazione, ancor più rara la possibilità che io parlassi di libri con chi mi circondava. Noi amiche eravamo impegnate sulle chat di Myspace a cercare qualche ragazzo più grande che ci trovasse carine.
Ho capito, molto dopo, che la mia incapacità era in parte generazionale, che questa atarassia politica era collettiva, riguardava molti di noi.

Quelli abituati a guardare la politica alla televisione, a sentire i politici litigare tra loro su tutto ma senza vere argomentazioni, quelli che dopo il G8 a Genova nel 2001 avevano paura delle manifestazioni, temevano di venir picchiati a manganellate, quelli per i quali la violenza era un tabù e il coraggio dell’adolescenza solo una scusa per guidare il motorino a fari spenti la notte.

***

Finito il liceo mi sono ritrovata, quasi senza rendermene conto, a scegliere la facoltà di filosofia e, sempre senza rendermene conto, a gravitare intorno ai corsi di diritto, scienze politiche e teoria politica.

D’improvviso tutto quello che avevo sentito come estraneo e impossibile si era manifestato nei corsi universitari, nei discorsi che facevo con i miei compagni, nei libri che trovavo in biblioteca. Come d’incanto sono apparse davanti ai miei occhi parole come giusnaturalismo, universalismo delle differenze, antinomie democratiche, leviatano, fenomenologia dello spirito, riconoscimento. A ogni nuovo studio cresceva la mia autostima, tornavo a casa e ne parlavo coi miei genitori, usavo termini altisonanti per darmi un tono, credevo di aver avuto finalmente accesso alla verità, a tutta la grandezza del pensiero politico universale, di possederlo e di poterne disporre. Guardavo con compassione ai miei compagni di liceo, a quel fidanzatino ricco e insulso, a quella esistenza in provincia dove nessuno sapeva chi fosse Hobbes.

Abbandonai i romanzi, lessi per cinque anni solo libri di filosofia, tenevo sul comodino Sant’Agostino e riempivo i miei quaderni di appunti sull’Illuminismo.

Eppure sentivo una nuova frattura: io ero cambiata, ma la politica in Italia no, lei era rimasta la stessa. Nessuno dei pensatori che studiavo veniva mai menzionato, nessuna delle conferenze a cui partecipavo vedeva mai presente un esponente politico, nessuno dei miei compagni di corso aveva come desiderio quello di occuparsi di politica in futuro.

Questa frattura divenne evidente quando mi laureai nel 2012 e, ricca della mia conoscenza, pensai che sarebbe stato facile trovare un modo per mettere in pratica cosa avevo imparato, cominciai a domandarmi come fare. Molte delle mie compagne di corso divennero insegnanti, altre partirono per l’estero, altre rimasero in facoltà come assistenti dei professori, altre ancora cambiarono completamente vita, lasciando da parte gli studi filosofici come una felice parentesi in un mondo dove applicarli sembrava impossibile.

Iniziai a detestare la televisione, la spegnevo quando partivano i comizi politici, abbassavo il volume quando i politici di schieramenti opposti discutevano ad alta voce, mi innervosivo se si parlava di voto o di campagna elettorale: volevo sputare su tutti i volantini, i manifesti dei candidati, le loro facce sorridenti, i loghi dei partiti. Ero nauseata.

Ho passato così gli anni dopo la laurea, a chiedermi il senso profondo delle mie scelte, cosa mi avesse portata verso quegli studi e perché, ma soprattutto come mai dentro alle mura della facoltà sembrava che noi studenti stessimo facendo qualcosa di fondamentale, necessario, e subito fuori, a un passo, il mondo ci diceva di no. Non servivamo a nulla, non c’era posto per noi.

I miei ex compagni del liceo si erano intanto laureati in economia, giurisprudenza, medicina e avevano chiaro il ruolo che avrebbero ricoperto, a cosa stessero aspirando, mentre io no, ero caduta in un vuoto di senso. Sentivo fortissima la rabbia e l’angoscia, avevo passato cinque anni della mia vita su qualcosa che pareva essere svanito nel nulla. Era la facoltà che ci mentiva o era il mondo la vera menzogna?

Avevo imparato che ogni manifestazione della storia della politica, almeno fino al Novecento, era stata una emanazione di una teoria politica. Erano bastati dei libri, scritti da singoli uomini o donne, a dare l’avvio alle numerose interpretazioni e alle ancora più numerose prese di posizione, messe a terra, della politica. Ma quello che mi circondava, ciò che avevo attorno, mi diceva il contrario: per gli anni Duemila da una parte c’era la politica e dall’altra, a una distanza di sicurezza, c’erano il pensiero politico, la scrittura politica, la narrazione politica.

Davanti a questa incomunicabilità anche io ero una donna priva delle parole adatte, anacronistica, debilitata dallo studio piuttosto che legittimata a far parte del dibattito pubblico. Di nuovo, come mi era successo nell’infanzia: io andavo in una direzione e la politica dall’altra.

***

Ci sono voluti altri anni, l’incontro con la letteratura italiana del Novecento italiano, la scoperta del mondo editoriale, il desiderio della scrittura a far partire un nuovo processo.

Mi sono resa conto, sempre a posteriori, che tutto quello che avevo studiato e che non stavo usando nella mia vita o nel mio lavoro, poteva tornare ad avere senso nella scrittura. Attraverso le storie, soprattutto del passato, potevo fare ricerca politica usando le vite dei miei personaggi e potevo avvicinarmi ad alcuni temi per me fondamentali come quello della fede politica, della giustizia sociale, della repressione civile.

Mentre in Italia i partiti di destra o di sinistra salivano e scendevano al governo risultando sempre più deboli e precari, sempre più incapaci di trovare soluzioni comuni ai problemi del paese, mentre i discorsi su radio, giornali e tv portati avanti dai capi politici si facevano ogni giorno più insignificanti, vuoti, e cambiavano di segno a seconda del contesto per accaparrarsi i voti del momento, io tornavo alla mia famiglia e mi facevo alcune domande sulla mia origine.
La prima, per me la più importante, riguardava la nascita di mio padre, il fatto che fosse nato ad Asmara in Eritrea e che quindi fosse diverso da tutti gli altri padri delle mie amiche.

Per trovare risposte allora ho preso in mano un registratore e ho iniziato a intervistare mia nonna, volevo sapere cosa c’entrasse l’Africa con noi, perché lei e mio nonno fossero là, e cosa volesse dire veramente Colonialismo per chi aveva colonizzato. Sapevano di essere dei colonizzatori? Sapevano di avere dei privilegi? Cosa avevano capito della storia politica del nostro paese rispetto ai paesi che avevamo occupato e trasformato in nostre colonie?

Il mio personale, la mia scrittura, si fece politica da sé, senza che io dovessi forzarmi o forzarla. Sentivo il bisogno di indagare, veniva da lontano, e mi serviva a riscattare i miei anni di studio, dare un senso al mio percorso, trovare un luogo dove tutte le parti di me potessero avere significato.

Dalle interviste con mia nonna apparve chiaro che anche lei era stata una bambina, come me, che non capiva cosa le accadeva intorno durante la Guerra, una adolescente che era partita per cercare la madre in Eritrea e non sapeva cosa fosse una Colonia. Ai tempi non aveva coscienza politica di alcun tipo, ma, suo malgrado, era stata parte di un vasto e controverso fenomeno storico. Davanti a questa consapevolezza divenne importante per me rimanere vicina alle sue mancanze, perché erano le stesse che si potevano riscontrare di generazione in generazione. Le stesse che avevo sempre sentito anche io, sempre un passo fuori dalla politica, sempre incapace di agire o di capire.

***

Quando il romanzo “La Grande A” uscì in Italia era il 2016, avevo ventisei anni, e venni considerata una giovane e interessante nuova voce della narrativa italiana. Cominciai un tour di presentazioni dove mi scontrai con la totale ignoranza della storia politica italiana nella maggior parte delle persone che incontravo. Mi sentii fuori posto, ero troppo giovane secondo molti per prendere parola su certi argomenti spinosi. C’era sempre qualche uomo o donna più adulto di me che si alzava durante gli incontri e si infervorava perché le mie parole lo turbavano. Io ripetevo la cosa più importante per me: con quel libro volevo contribuire alla presa di coscienza del passato, dare spazio a un racconto collettivo.

Erano discorsi che spesso cadevano nel vuoto.

Ne soffrii, ma continuai nel mio percorso, continuai a farmi domande, tornai ai miei studi ancora una volta. Quello che avevo imparato sul Colonialismo italiano mi aveva fatto capire che avevo vari vuoti da colmare. La mia famiglia conteneva un’altra storia, che tangenzialmente aveva toccato la politica italiana: era la storia del mio bisnonno, uomo anarchico di inizio Novecento, cresciuto in un paesino del centro Italia e poi scappato in Francia e Germania.

Ecco, un movimento politico di cui sapevo davvero poco e di cui non si parlava con piacere in Italia: l’anarchismo. Un movimento che nasceva in tutto e per tutto dalla scrittura, dal pensiero politico. Fu il mio bisnonno a insegnarmelo: imparò, infatti, a leggere e a scrivere da solo, lui che era analfabeta, perché senza quegli strumenti non avrebbe potuto partecipare alla vita anarchica che era fatta di corpi e braccia, ma che per essere interpretata aveva bisogno di nutrirsi di articoli, saggi, canti, poesie.

Mi misi sotto, studiai, lessi, feci ricerche, e mi resi conto di essere davanti a un’altra parziale rimozione, dopo quella del Colonialismo, quella dei movimenti di estrema sinistra che avevano preceduto l’avvento del Fascismo, quegli stessi movimenti a cui Mussolini aveva preso parte, in qualità di socialista rivoluzionario, amico intimo di molti anarchici e repubblicani dell’epoca. Ripensai al mio fidanzato del liceo, che disegnava le celtiche sui diari altrui, e che non sapeva assolutamente nulla della storia del partito fascista, non era neanche curioso di scoprire chi fosse stato veramente Mussolini, cosa avesse fatto, cosa significassero quei simboli, perché e come erano stati scelti, come era passato dall’essere vicino alle posizioni antimilitariste e antimperialiste anarchiche all’uomo che voleva ridare splendore all’Italia attraverso la sua missione coloniale.

“Un giorno verrà” uscì in Italia nel 2019 e venne letto pochissimo, sui giornali se ne disinteressarono, gli unici entusiasti furono, appunto, i vecchi anarchici che ritrovarono la loro storia o quella dei loro predecessori in quel libro. Spesso venni additata, di nuovo, come la giovane autrice che scrive di politica, scrive per pochi, sarebbe bene la smettesse o trovasse qualcosa di più interessante da scrivere.

È stato solo con l’uscita in Germania presso la casa editrice Wagenbach che il libro ha ricevuto attenzione e quando sono venuta a Berlino per parlarne, ricordo che ero frastornata da tutte le domande che mi venivano rivolte, era strano per me, era insolito, non era quello che succedeva in Italia.

***

Per qualche anno mi crogiolai nella confortevole idea che la mia non-militanza fisica potesse essere sopperita dalla mia scrittura, che quello dei romanzi fosse il mio modo di fare politica. E credo che su questo esistano due categorie di persone che scrivono: chi pensa che sia così, che un libro possa essere un’arma politica e chi invece crede che la letteratura debba essere libera dalla morale, dall’etica, dalla politica, non possa dare risposte, ma solo porre le domande attraverso la narrazione nel modo più complesso possibile.

Io avevo studiato che i libri potevano creare dei movimenti e che politica e letteratura erano state in passato a braccetto, si erano incontrate e scontrate molte volte, e che grandi testi di teoria politica erano letterariamente validi come i grandi romanzi.

Eppure la mia visione cominciò a cambiare, perché quella frattura, nonostante i miei tentativi, non si chiudeva mai. I miei romanzi erano inefficaci, o così a me sembrava, le mie ricerche politiche non provocavano nessun dibattito. Quello che andavo facendo era portare avanti un vecchio modo di pensare alla scrittura, un modo che non mi sembrava adatto agli anni Duemila. Gli stessi anni in cui sono diventata adulta e che sempre mi hanno dimostrato quanto il consumo, la pubblicità, gli strilli dei capi politici fossero distanti da me, da quello che amavo, da quello che studiavo e leggevo.

Allora, al culmine di una profonda crisi di identità, mi sono detta che avrei chiuso con la scrittura e con la filosofia, che avrei scritto un ultimo libro e se quello non avesse prodotto un minimo di dibattito, un minimo di impatto, non avrebbe avuto senso continuare.

Ma da dove riprendere il discorso e su cosa muoverlo? Mi buttai e comincia a pensare a un nuovo romanzo dove i ragionamenti politici fossero presenti ma meno visibili, fossero più sciolti nella narrazione. Di cosa mi premeva parlare? Ci pensai a lungo.

Volevo spostarmi sul contemporaneo ma non sapevo come fare, mi sentivo persa senza i libri da studiare o le fonti e gli archivi da consultare, ero nuda.

Mi tornarono alle mente sempre quelle celtiche sul diario, la mia incapacità di reagire davanti a quei segni pieni di significati che venivano usati come decorazioni, come scherzi, e poi la provincia dove ero cresciuta e in cui non si parlava mai di politica, in cui tutto sembrava concentrato solo sulle dicerie, e in cui molti giovanissimi diventavano violenti senza ragioni, sfogavano le loro frustrazioni sugli altri, con gesti assurdi, ma mai avrebbero pensato di rivolgere quella stessa violenza contro i politici, contro l’apatia in cui ci avevano gettato, contro le loro insolvenze. E allora ho capito che era di questo che volevo scrivere, della dimensione a-politica che avevo vissuto per buona parte della mia vita, di come questo avesse reso difficile per me crearmi una mia identità, di come fossi arrivata sempre impreparata alla conversazione politica, e quanto mi fosse mancato quello che avevo fatto vivere al mio personaggio, Lupo, in “Un giorno verrà”: la formazione politica.

Una formazione che, ne ero sempre più convinta, non poteva fare a meno della pratica, dello scambio umano, della progettazione di gruppo, ma anche della lettura, dello studio, della cultura ad ampio spettro.

***

In questo modo nel 2021 è nata Gaia, la protagonista di “L’acqua del lago non è mai dolce”, una ragazzina che viene da una famiglia con grandi difficoltà economiche e che imputa queste difficoltà invece che al sistema a sua madre, e che vorrebbe essere come tutte le altre ragazzine di provincia, comprarsi orecchini e costumi da bagno, ignorare la società in cui vive, farne parte senza porsi domande, senza averne davanti agli occhi tutti i giorni le crudeli ingiustizie.

Mi sembrò una buona idea provare a travestire da romanzo di formazione una mia riflessione personale e politica, volevo vedere cosa sarebbe successo, se mescolando sempre di più pensiero politico e narrazione, quasi arrivando a non rendere più riconoscibile il primo, fosse possibile veicolarlo in un modo diverso, renderlo digeribile.

Il libro, su cui io non avevo grandi aspettative o certezze, riuscì ad arrivare a un vasto pubblico in Italia e in molti altri paesi europei, permettendomi da quel momento di dedicarmi a più di un dibattito pubblico sulle domande che con la mia scrittura avevo provato a sollevare.

Mi sono resa conto, quasi subito, che mentre in Italia si era più interessati all’aspetto narrativo del romanzo, negli altri paesi le domande e le curiosità riguardavano sempre il lato politico della mia scrittura, come se dall’esterno fosse più facile capire e analizzare il tipo di operazione che avevo fatto.

Eppure, nonostante queste grandi soddisfazioni, i fantasmi del passato non sono mai andati via del tutto. Dopo i primi momenti di euforia e senso di realizzazione ho continuato a trovare inconcludente la mia scrittura, a trovarmi in dolorosa difficoltà rispetto alla politica odierna italiana. Una politica con cui non ho mai sentito nessuna familiarità, nessun contatto, verso cui non ho sentito alcuna vocazione, mai. Mi sono chiesta se dipendesse da me, se la colpa fosse solo ed esclusivamente mia, che con reticenza mi avvicinavo, che svicolavo davanti all’opportunità di prendere parte a qualcosa che anche lontanamente avesse a che fare con un partito, anche di sinistra.

E alla fine mi sono risposta di no, che la colpa non era soltanto mia, che come generazione abbiamo subito e anche operato un distaccamento feroce dalla vita politica, abbiamo smesso di investire le nostre energie in quel tipo di dibattito, ci siamo sentiti fuori luogo, ci siamo lasciati assorbire dalla logica berlusconiana prima, quella del soldo, dell’interesse privato e della commercializzazione televisiva e dalle sue macerie poi: un partito di sinistra allo sbando, una destra sempre più incattivita.

***

Non basta, credo, oggi, scrivere di attualità, commentare come scrittori e scrittrici, cosa fa il politico x, criticare le azioni di governo, è necessario ma non sufficiente a una vera rifondazione. Quello che sempre manca è il pensare politico, è il confronto sui sistemi della politica, sull’impianto filosofico politico, è saper scrivere di politica, non dei fatti, ma delle idee alte, superiori, che tutelano tutto il resto.

In questo la classe intellettuale ha delle colpe in Italia, perché spinta dal mercato editoriale e dalla sempre più irrisoria valenza pubblica della scrittura, si è trincerata nel proprio mondo, dove parla di se stessa, vede se stessa e critica se stessa.

Così anche io, in fin dei conti, mi sono nascosta dentro alla mia scrittura, ho smesso di tentare l’attracco al pensiero politico, ho dimesso le mie armi filosofiche e ho iniziato a dimenticare come tutto per me era cominciato: per la voglia di conoscere la politica, capirla e poi trovare il modo di farla, trovare il modo di cambiarla. Almeno tentare.

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è scrittrice, editrice e redattrice. Il suo più recente romanzo "L'Acqua del lago non è mai dolce" è stato pubblicato nel 2022.